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MYTHOS
1999, Mostra alla Galleria Armanti di Varese
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Il fascino e la sensualità del mito
di Giorgio Seveso

Dall'interno di un riconquistato gusto per la classicità, eppure sempre ben lontano da quella che è stata la fatua superficialità dei cosiddetti citazionisti, Galimberti ormai da anni viene indagando un suo spazio pittorico e poetico di forte presenza. Uno spazio appartato, riflessivo, diciamo anche sommesso perché privo di ricerca d'effetti o di clamori formali, di iperboli tecniche o linguistiche studiate soltanto pour épater les bourgeois, ma spazio comunque denso, sodo di riflessioni e di progressive maturità, di suggestioni eloquenti ed efficaci nelle quali soprattutto si sono messe in luce, nel dipanarsi dei suoi cicli tematici, quelle ricavate dal gran serbatoio aulico dei miti della nostra classicità.

Ma i miti di Galimberti, anzi il Mito che regge come un perno centrale ogni sua impalcatura d'immagine, non sono  e non è mai, dicevo, mera citazione referenziale, pretesto estetico soltanto... Il suo richiamo al Mito suona piuttosto come allegoria polemica nei confronti delle ragioni e dei valori del presente. Suona come metafora umorosa dei nostri umori, come giudizio morale nei confronti della Morale dell’Occidente contemporaneo e della sua decadenza. Suona, insomma, come il portato di una tensione etica, come il distillato di un lavorìo dell'immaginario chino non tanto sulle ragioni appunto dei miti mediterranei ed ellenici che hanno cresciuto la nostra adolescenza liceale quanto, invece, sulla cronaca rumorosa e scrosciante di quella realtà quotidiana che tutti oggi circonda, connota, condiziona.

Quasi come per riattualizzare lo sguardo di un Guido Reni o di un David nel momento in cui si volgevano alla classicità ellenica o romana per reinterpretare in senso etico il loro presente, nel suo modo d’intendere le modalità del dipinto Galimberti fa agire un immaginario di corpi, di gesti, di citazioni e memorie che si dispongono a raccontare una attualità interpretata, o anche, se volete, una fantasticazione critica, in cui, intrecciando Eros a Thanatos e Cronos, si perviene ad una sorta di teatro dell’oggi, ad un diorama illuminato e irrorato dalla fervida e sensuale attualità delle cose eppure come sospeso in una luce eburnea e felpata, fuori dal tempo ma presente alla vita.

C'è qui dunque, per me, tutto un senso concreto della mitologia, una accezione, questa sua, non certo diffusissima ogg), che ritrovo, per esempio, in una pagina di Roland Barthes (dai Miti d'oggi, del 1957), vecchia ma certamente non ancora invecchiata. "Quali che siano i suoi procedimenti", scriveva difatti il filosofo francese, “è certo che la mitologia partecipa a un fare del mondo: tenendo per fermo che l'uomo della società borghese è ad ogni momento immerso in una falsa natura, essa tenta di ritrovare, sotto le forme innocenti della più ingenua vita di relazione, l’alienazione profonda che tali forme hanno il compito di far passare; la sua operazione rivelatrice è dunque un atto politico: fondata su un’idea responsabile del linguaggio essa postula con ciò stesso la libertà. (...) Questo dobbiamo cercare nel mito: una riconciliazione del reale e degli uomini, della descrizione e della spiegazione, dell'oggetto e del sapere.”

E se appunto c’è nei corpi e nei gesti dei personaggi di Galimberti questa assorta concentrazione di pensiero, questa liricizzazione di una poetica della memoria e del giudizio, ciò è davvero frutto di passione autentica e profonda, e proviene da una partecipazione palpitante e addirittura sanguigna, sensuale, fisica, alle circostanze della figurazione e del figurare. Chi lo conosce e lo frequenta nella vita d'ogni giorno sa bene che tale appassionata concezione pittorica pervade ogni suo spazio, ogni suo giudizio nel rapporto con il tempo trascorso, con la Storia, con le tracce che essa lascia negli archetipi fondanti della specie così come nell’individualissimo destino di ciascuno.

Presentandolo nel 1992, Gonzalo Alvarez Garcia ha parlato appunto di un tale rapporto del nostro pittore con il passato e con il presente. “La nostra esistenza, essenzialmente drammatica”, annotava lo scrittore, “è un groviglio di cose contrapposte che si ostinano a vivere dentro di noi con la loro natura contraddittoria. Vengono, passano e ritornano le rivoluzioni e le sottomissioni. Galimberti, che vive installato nel presente come un re nella sua reggia, ha dimestichezza col passato. Lo ama come si ama la casa paterna. E il passato non è memoria asettica; è la sostanza cordiale del presente, la misura profetica del futuro. Come potremmo trovare una strada che ci porti dall'altro lato del muro della storia, se non fossimo in grado di recuperare questa memoria cordiale del passato?”

E difatti i suoi quadri sono la testimonianza di una scelta che non è soltanto d’ordine estetico ma che soprattutto risponde da anni, ho già detto, ad una mozione etica, ad una fede straordinaria nel primato della natura dell’uomo sopra ogni altra considerazione, sopra ogni possibile sovrastruttura.

Vediamo la seduzione sottile, appunto, delle opere riunite per questa mostra. Fanciulle ed eroi, personaggi favolosi e racconti epici si susseguono e si intrecciano da Atalanta ad Ippomene, Zeus ed Europa, Paride, Teseo, Ganimede, gli Argonauti, i Centauri... Ognuno in abiti contemporanei, in tagli fotografici, in sequenze vorticose da fiction o nella ieraticità di pose più che classiche, come ce li ha consegnati il filtro della memoria che ogni cosa trasforma nel segreto del suo laboratorio affettivo, per ricostruire, per decontestualizzare, per prolungare e rinnovare i sensi di una portata poetica che si moltiplica e si riproduce, che solleva echi e rimandi, rispecchiamenti e parallelismi nel gioco fitto ma controllatissimo e calibrato delle allusioni e delle illusioni, nel mosaico delle metafore, delle simbologie, dei traslati.

Miti, passioni, sensi: l’opera si disvela nelle stesse domande che pone al riguardante. Il pittore-poeta, nel realizzarla, interroga l'immagine, che a sua volta rimanda al vissuto d'ogni giorno che ci circonda, al frastuono del televisore che urla sciagure dall’altra stanza, alle utopie spezzate, alla fatica della speranza e del progetto... Per il suo tramite ci induce ad interrogare il senso stesso di quella vita dalla quale l’immaginario prende le mosse, fedele sempre (ma certo non per scelta formalistica) a ciò che egli stesso ha chiamato in un suo scritto “la figurazione, che è l'ambito dove più adeguatamente e prepotentemente abita il simbolico, uno tra i più specifici strumenti del lavoro culturale.” Ecco, la figurazione e il simbolico: un altro modo per dire l'immaginario e il poetico, l'immagine e il suo doppio metaforico. Sono queste le sponde tra le quali lavora la contemplazione di Galimberti, che di tutta evidenza si è ormai conquistato oggi, nel nostro panorama pittorico, un suo abito distintivo e particolare, un suo messaggio: qualcosa che ha efficacia anche al di là della fascinazione e della morbida seduzione delle sue immagini.

Giorgio Seveso

 

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