Il fascino e la sensualità del mito
di Giorgio Seveso
Dall'interno di un riconquistato gusto per la classicità,
eppure sempre
ben lontano da quella che è stata la fatua superficialità dei cosiddetti
citazionisti, Galimberti ormai da anni viene indagando un suo spazio
pittorico e poetico di forte presenza. Uno spazio appartato, riflessivo,
diciamo anche sommesso perché privo di ricerca d'effetti o di clamori
formali, di iperboli tecniche o linguistiche studiate soltanto pour épater
les bourgeois, ma spazio comunque denso, sodo di riflessioni e di
progressive maturità, di suggestioni eloquenti ed efficaci nelle quali
soprattutto si sono messe in luce, nel dipanarsi dei suoi cicli
tematici, quelle ricavate dal gran serbatoio aulico dei miti della
nostra classicità.
Ma
i miti di Galimberti, anzi il Mito che regge
come un perno centrale ogni sua impalcatura d'immagine, non sono e non è mai, dicevo,
mera citazione referenziale, pretesto estetico soltanto... Il suo richiamo
al Mito suona piuttosto come allegoria polemica nei confronti
delle ragioni e dei valori del presente. Suona come metafora umorosa dei
nostri umori, come giudizio morale nei confronti della Morale
dell’Occidente contemporaneo e della sua decadenza. Suona, insomma, come
il portato di una tensione etica, come il distillato di un lavorìo
dell'immaginario chino non tanto sulle ragioni appunto dei miti
mediterranei ed ellenici che hanno cresciuto la nostra adolescenza liceale
quanto, invece, sulla cronaca rumorosa e scrosciante di quella realtà
quotidiana che tutti oggi circonda, connota, condiziona.
Quasi
come per riattualizzare lo sguardo di un Guido Reni o di un David nel
momento in cui si volgevano alla classicità ellenica o romana
per reinterpretare in senso etico il loro presente, nel suo modo
d’intendere le modalità del dipinto Galimberti fa agire un immaginario
di corpi, di gesti, di citazioni e memorie che si dispongono a raccontare
una attualità interpretata, o anche, se volete, una fantasticazione critica, in cui, intrecciando Eros a Thanatos e Cronos, si perviene ad
una sorta di teatro dell’oggi, ad un diorama illuminato e
irrorato dalla fervida e sensuale attualità delle cose eppure come
sospeso in una luce eburnea e felpata, fuori dal tempo
ma presente alla vita.
C'è qui dunque, per me, tutto un senso concreto della
mitologia, una
accezione, questa sua, non certo diffusissima ogg), che ritrovo, per esempio, in una pagina di Roland Barthes
(dai Miti d'oggi, del 1957), vecchia ma certamente non ancora
invecchiata. "Quali che siano
i suoi procedimenti", scriveva difatti il filosofo francese, “è
certo che la mitologia partecipa a un fare del mondo: tenendo per fermo
che l'uomo della società borghese è ad ogni momento immerso in una falsa
natura, essa tenta di ritrovare, sotto le forme innocenti della più
ingenua vita di relazione, l’alienazione profonda che tali forme hanno
il compito di far passare; la sua operazione rivelatrice è dunque un atto
politico: fondata su un’idea responsabile del linguaggio essa postula
con ciò stesso la libertà. (...) Questo dobbiamo cercare nel mito: una
riconciliazione del reale e degli uomini, della descrizione e della
spiegazione, dell'oggetto e del sapere.”
E
se appunto c’è nei corpi e nei gesti dei personaggi di Galimberti
questa assorta concentrazione di pensiero, questa liricizzazione di una
poetica della memoria e del giudizio, ciò è davvero frutto di passione
autentica e profonda, e proviene da una partecipazione palpitante e
addirittura sanguigna, sensuale, fisica, alle circostanze della
figurazione e del figurare. Chi lo conosce e lo frequenta nella vita
d'ogni giorno sa bene che tale appassionata concezione pittorica pervade
ogni suo spazio, ogni suo giudizio nel rapporto con il tempo trascorso,
con la Storia, con le tracce che essa lascia negli archetipi fondanti
della specie così come nell’individualissimo destino di ciascuno.
Presentandolo
nel 1992, Gonzalo Alvarez Garcia ha parlato appunto di un tale rapporto
del nostro pittore con il passato e con il presente. “La nostra
esistenza, essenzialmente drammatica”, annotava lo scrittore, “è un
groviglio di cose contrapposte che si ostinano a vivere dentro di noi con
la loro natura contraddittoria. Vengono, passano e ritornano le
rivoluzioni e le sottomissioni. Galimberti, che vive installato nel
presente come un re nella sua reggia, ha dimestichezza col passato. Lo ama
come si ama la casa paterna. E il passato non è memoria asettica; è la
sostanza cordiale del presente, la misura profetica del futuro. Come
potremmo trovare una strada che ci porti dall'altro lato del muro della
storia, se non fossimo in grado di recuperare questa memoria cordiale del
passato?”
E
difatti i suoi quadri sono la testimonianza di una scelta che non è
soltanto d’ordine estetico ma che soprattutto risponde da anni, ho già
detto, ad una mozione etica, ad una fede straordinaria nel primato della
natura dell’uomo sopra ogni altra considerazione, sopra ogni possibile
sovrastruttura.
Vediamo
la seduzione sottile, appunto, delle opere riunite per questa mostra.
Fanciulle ed eroi, personaggi favolosi e racconti epici si susseguono e si
intrecciano da Atalanta ad Ippomene, Zeus ed Europa, Paride, Teseo,
Ganimede, gli Argonauti, i Centauri... Ognuno in abiti contemporanei, in
tagli fotografici, in sequenze vorticose da fiction o nella ieraticità di
pose più che classiche, come ce li ha consegnati il filtro della memoria
che ogni cosa trasforma nel segreto del suo laboratorio affettivo, per
ricostruire, per decontestualizzare, per prolungare e rinnovare i sensi di
una portata poetica che si moltiplica e si riproduce, che solleva echi e
rimandi, rispecchiamenti e parallelismi nel gioco fitto ma
controllatissimo e calibrato delle allusioni e delle illusioni, nel
mosaico delle metafore, delle simbologie, dei traslati.
Miti,
passioni, sensi: l’opera si disvela nelle stesse domande che pone al
riguardante. Il pittore-poeta, nel realizzarla, interroga l'immagine, che
a sua volta rimanda al vissuto d'ogni giorno che ci circonda, al frastuono
del televisore che urla sciagure dall’altra stanza, alle utopie
spezzate, alla fatica della speranza e del progetto... Per il suo tramite
ci induce ad interrogare il senso stesso di quella vita dalla quale
l’immaginario prende le mosse, fedele sempre (ma certo
non per scelta formalistica) a ciò che egli stesso ha chiamato in un
suo scritto “la figurazione, che è l'ambito dove più adeguatamente
e prepotentemente abita il simbolico, uno tra i più specifici strumenti
del lavoro culturale.” Ecco, la figurazione e il simbolico: un altro modo
per dire l'immaginario e il
poetico, l'immagine e il suo doppio metaforico. Sono queste le
sponde tra le quali lavora la contemplazione di Galimberti, che di tutta
evidenza si è ormai conquistato oggi, nel nostro panorama pittorico, un
suo abito distintivo e particolare, un suo messaggio: qualcosa che ha
efficacia anche al di là della fascinazione e della morbida seduzione
delle sue immagini.
Giorgio Seveso